lunedì 28 novembre 2011

Babute

Ciao, Babute. Ti penso sempre da qui.

mercoledì 16 novembre 2011

Reo confesso


Uso questo mezzo demoniaco per dire tutto quello che mi fa vergognare quando mi guardo allo specchio. Non ammetto biografie sul mio conto, del resto. Io sono la mia biografia. Ecco la verità. Ho tradito familiari e amici, ho fatto debiti su debiti, sono stato tirato fuori dalla merda più volte, ho offeso la dignità di molti vivi e la memoria di alcuni morti. Sono stato un bugiardo, un buffone, un contaballe, un personaggio miserabile, senza coraggio, privo di spina dorsale. Ho fatto soffrire le persone che mi hanno voluto e che mi vogliono ancora bene e le ho abbandonate quando avevano bisogno di me, offendendole e mortificandole senza pietà. Io sono questo schifo quando mi guardo allo specchio. Io sono questo schifo, c'è ben poco da aggiungere. Non so se riuscirò a fare davvero i conti con me stesso, non so se sarò in grado di comportarmi onestamente d'ora in poi, ma questi non sono cazzi di chi mi sta leggendo. Chiedo scusa, sinceramente, a chi ha avuto la sfortuna di conoscermi nelle vesti appena descritte. E mando a fare in culo quelli che di queste mie parole faranno un uso losco per qualche scopo vomitevole. 

sabato 22 ottobre 2011

To tidy oneself up

Non costa molto darsi una ripulita. E' guardare negli occhi la gente onesta che mi sfianca. Io non sono come loro. Non lo sarò mai. Allo specchio la verità, nella solitudine il pentimento. Come voler cantare con voce vissuta e purissima e non averne più. Col pubblico che svanisce, o che semplicemente non è mai esistito. Allora viva la mia guerra. La mia ridicola guerra da non vincere.

lunedì 17 ottobre 2011

Non cadono più

La scrivo così come va scritta. Forse una lettera a nessuno, più probabilmente una confessione. A breve gli anni saranno trentuno. Tre decenni senza meraviglie, un fuocherello di tanto in tanto. Nulla di duraturo. Poca serietà. In equilibrio sopra un vuoto infernale, questione di materassi. Fortuna, sedere, cabala. Malattie in buona fede,  letali. Se non si fa attenzione... Scende a terra uno dei satanassi a consegnar le chiavi di una nuova prigione. Vestito per confondersi con gli altri, un uomo comune, carezza i fantasmi di domani, li vezzeggia, hanno i capelli lisci e giovani. Li sta sbranando, ha già fatto a pezzi i genitori, i figli. Adesso tocca ai nipoti. Adesso tocca a loro. La colpa è anche mia. Continuano a cadere fiori. C'è da fargli domande con una pistola alla tempia, la sua, al satanasso non si dovrebbe dare scampo. Invece se ne torna a casa, ovunque essa sia. Tranquillo, una goccia di sudore, altro che rivoluzione. Ricomincio a occuparmi delle malattie in buona fede, stupidaggini che nascondono ogni crimine terreno. Continuano a cadere fiori. Sabato si gioca, satanasso lo sa. Sarò distratto dai miei sogni infranti finiti sullo schermo, così lui potrà concentrarsi sugli ultimi omicidi. Si laverà il sangue dalle mani mentre ci guarderà morire, poi tutto sarà cenere. Un'altra birra, un altro gol. Non cade più nemmeno un fiore.

Tempo scaduto


Ho una serie di macchie, anche recenti, che non mi permettono di guardarmi allo specchio con serenità. Nulla è cambiato, quindi poche storie. Sono macchie di merda sul viso e sull'anima, sul cuore, sulle mani, una pioggia di  merda, il cielo che diventa culo, un buco di culo infinito. Non posso abbracciare il bambino che sono stato. Lui profuma di futuro, io porto addosso il fetore della merda. È in adolescenza che si sboccia. Dopo, è solo un dannoso rincorrere il tempo, ma si è già morti e il tempo è decisamente scaduto. 

sabato 17 settembre 2011

Libero a breve

Quando sarò pronto per liberarmi di tutte le zavorre che negli anni mi hanno appesantito e rinchiuso in una gabbia di provincia, la mia, quella interiore, impedendomi di godere del giusto male di vivere fino in fondo? Quando la smetterò di giudicare dall'alto di non si sa bene quale pulpito? Oggi il cuore è più sicuro, più malandato e indurito, certo, ma io sapevo chi ero, alla fine si scopre sempre una verità di cui sospettavi. Per fortuna ho bevuto forte e ho messo da parte una lunga parentesi da cucciolo stolto. L'ho ucciso, è morto per sempre. Credo di essere pronto per sentirmi veramente libero, come libero sono stato molto tempo fa. Giorni di guerriglia, di bòtte prese da chi le sapeva dare. Erano pianti disperati e sinceri. Ero figlio dell'incoscienza pura che solo una volta ti spetta, non si ricompra da nessuna parte. Viva l'incoscienza. Vaffanculo a tutte le brutte merde schifose che di me conoscono solo vergogne.

martedì 6 settembre 2011

Il superfluo

Ha ragione la natura, anche quando ha torto marcio e vorresti calciarla nel culo. Con la natura vanno fatti i conti innanzitutto, poi, giusto un gradino più sotto, con la società in cui ti trovi a dover vivacchiare. Io me la ricordo la polvere che impepava in estate gli occhi e le finestre e mi ricordo pure il bambino che giocava col pallone da solo in mezzo alla neve, su un prato abbastanza largo a pochi metri da piccoli gruppi di puttanelle appassite in compagnia dei loro compari ubriachi, morti vivi all'ombra di alberelli secchi nello stridore dei macchinari proprio dietro il freddo magazzino commerciale. Ricordo pure e con anomala nitidezza lo squarcio catarroso in gola di un patrigno sprofondato nella rimessa dalla luce giallognola come le sue unghie da fumatore, perduto in un limbo clinico e con le palpebre appesantite come tendaggi cascanti. Impossibile resistere sette giorni nel nome della sobrietà, quell'esistenza posticcia che si era ritagliato lo ammostava con sentenza inappellabile, neppure una grazia, un decoroso riposo dopo quello scorticamento di fegato; la vodka al contrario lo schiaffeggiava con onestà insinuandosi liberamente nelle viscere e nelle arterie tanto da annullargli la consistenza delle ossa e le forze fisiche in generale, giusto un po' la voce poteva sovraccaricarsi e toccare tonalità più alte del solito, cosa che faceva di lui un pagliaccio logoro, un'animetta da ominide dentro un corpo un tempo consistente e fiero. Di donne ne ebbe qualcuna in cinquant'anni. Di illusioni fuggevoli altrettante. Ingrassato e imbolsito poteva al massimo un paio di chilometri di strada al giorno, un paio di chilometri fra andata e ritorno. Dalla stanzetta nel palazzaccio umido di peccati e di tragicomici figuranti del mondo dovette andar via ben presto, maledizione, la finestrona larga larga dava su un bel fazzoletto d'erba. L'ultima sua femmina lo baciò malamente un mattino d'inverno e dopo fu soltanto malessere. Da anni si teneva impegnato bevendo alcol puro, lo rimediava pulendo il pavimento di un bugigattolo sotto casa e sfruttando comunque un abbonamento morale a una baracchetta a un paio di centinaia di metri, lì servivano pasti caldi due volte al giorno per gli indigenti e i miserrimi del quartiere, in un quartiere di indigenti e miserrimi in abbondanza. Brillò pure per un breve lasso di tempo, gli capitò quando ormai parlava e ragionava da adulto tanto che non poté gioire di qualche pur ingannevole successo in campo lavorativo. Una mattina di di venticinque anni prima rincasò come ogni mattina dal forno dove lavorava, vide il suo vecchio terribilmente in disuso irrimediabilmente assopito in poltrona, da sette mesi non parlava neanche più ma quella mattina si accorse di non poter recuperare niente, tempo perduto, tempo morto; gettò un'occhiata alla foto di sua madre sul comodino rotto, sua madre da giovane, boccoli neri neri su un viso aggraziato ma deciso, ben definito, da splendida contadina qual era, e il puzzo acre di quel mondo malaticcio e polveroso gli si palesò nelle narici invadendo ogni centimetro delle interiora. Capì che l'abisso non intendeva più aspettare e che il destino s'era compiuto. Mai più una carezza d'ora in poi, mai più soffi leggeri sulla pelle, basta con l'amore sotto il cielo limpido, riparati sotto il legno anziano di una barchetta sulla spiaggia, o alle tre del mattino in un'antica viuzza della città. Ora comanda il superfluo. 

sabato 30 luglio 2011

Il coito degli altri

Andy Black continuava a domandarsi per quale terribile ragione si dovesse staccare la spina, perché mai la spina dovesse essere staccata per completare ogni funzione. Non siamo qui per mangiare vita e poi ricominciare? Per commuoverci e morire e poi risorgere? Qui, nel nostro grembo e nel nostro umile altrove, nella nostra stanzetta da dormitorio la sera del tuo compleanno, non del suo, e te ne stai serrato dentro l'universo buio di compensato e mura deboli con un fornetto arrugginito per cucinare qualcosa e una scatola di metallo per rifugiarci gli ultimi rimasugli? Nei due metri di solitudine che sei riuscito a ottenere per un po' non sei nessuno, comunque vadano le cose. Lei è uscita a festeggiare la sua stolta e sincera felicità. Domattina, giusto un paio d'ore dopo essere rientrata malconcia di alcol e baci appuntiti prenderà se stessa e la porterà lontano dal tuo muso lungo ancora una volta, non senza aver fatto schioccare le sue labbra umide e così bugiarde sulla tua guancia infuocandola per un secondo, fottendoti per i secoli a venire con lo svolazzo della gonna che se ne va. Andy Black, lei sta calpestando sabbia e asfalto, sta traversando i continenti, si sta portando il braccio destro sull'altra spalla per un dolorino, ha passato l'estate a ballare, non è niente in realtà. Lei sta respirando la merda che le è stata assegnata pure se crede di averla scelta e quello lì, brutto idiota, ha più gamba di te, corre e pare sia capace di vincere gni cosa. Non lo spaventa la malaria giallastra, non teme alcun ricordo, ne ha divorati molti e a te spettano, se il buon Dio s'è distratto per farla senza sporcare il bordo del water, due o tre briciole di nullità: l'altrui coito osservato dalla finestra. Dove diavolo credi di andare?