martedì 6 settembre 2011

Il superfluo

Ha ragione la natura, anche quando ha torto marcio e vorresti calciarla nel culo. Con la natura vanno fatti i conti innanzitutto, poi, giusto un gradino più sotto, con la società in cui ti trovi a dover vivacchiare. Io me la ricordo la polvere che impepava in estate gli occhi e le finestre e mi ricordo pure il bambino che giocava col pallone da solo in mezzo alla neve, su un prato abbastanza largo a pochi metri da piccoli gruppi di puttanelle appassite in compagnia dei loro compari ubriachi, morti vivi all'ombra di alberelli secchi nello stridore dei macchinari proprio dietro il freddo magazzino commerciale. Ricordo pure e con anomala nitidezza lo squarcio catarroso in gola di un patrigno sprofondato nella rimessa dalla luce giallognola come le sue unghie da fumatore, perduto in un limbo clinico e con le palpebre appesantite come tendaggi cascanti. Impossibile resistere sette giorni nel nome della sobrietà, quell'esistenza posticcia che si era ritagliato lo ammostava con sentenza inappellabile, neppure una grazia, un decoroso riposo dopo quello scorticamento di fegato; la vodka al contrario lo schiaffeggiava con onestà insinuandosi liberamente nelle viscere e nelle arterie tanto da annullargli la consistenza delle ossa e le forze fisiche in generale, giusto un po' la voce poteva sovraccaricarsi e toccare tonalità più alte del solito, cosa che faceva di lui un pagliaccio logoro, un'animetta da ominide dentro un corpo un tempo consistente e fiero. Di donne ne ebbe qualcuna in cinquant'anni. Di illusioni fuggevoli altrettante. Ingrassato e imbolsito poteva al massimo un paio di chilometri di strada al giorno, un paio di chilometri fra andata e ritorno. Dalla stanzetta nel palazzaccio umido di peccati e di tragicomici figuranti del mondo dovette andar via ben presto, maledizione, la finestrona larga larga dava su un bel fazzoletto d'erba. L'ultima sua femmina lo baciò malamente un mattino d'inverno e dopo fu soltanto malessere. Da anni si teneva impegnato bevendo alcol puro, lo rimediava pulendo il pavimento di un bugigattolo sotto casa e sfruttando comunque un abbonamento morale a una baracchetta a un paio di centinaia di metri, lì servivano pasti caldi due volte al giorno per gli indigenti e i miserrimi del quartiere, in un quartiere di indigenti e miserrimi in abbondanza. Brillò pure per un breve lasso di tempo, gli capitò quando ormai parlava e ragionava da adulto tanto che non poté gioire di qualche pur ingannevole successo in campo lavorativo. Una mattina di di venticinque anni prima rincasò come ogni mattina dal forno dove lavorava, vide il suo vecchio terribilmente in disuso irrimediabilmente assopito in poltrona, da sette mesi non parlava neanche più ma quella mattina si accorse di non poter recuperare niente, tempo perduto, tempo morto; gettò un'occhiata alla foto di sua madre sul comodino rotto, sua madre da giovane, boccoli neri neri su un viso aggraziato ma deciso, ben definito, da splendida contadina qual era, e il puzzo acre di quel mondo malaticcio e polveroso gli si palesò nelle narici invadendo ogni centimetro delle interiora. Capì che l'abisso non intendeva più aspettare e che il destino s'era compiuto. Mai più una carezza d'ora in poi, mai più soffi leggeri sulla pelle, basta con l'amore sotto il cielo limpido, riparati sotto il legno anziano di una barchetta sulla spiaggia, o alle tre del mattino in un'antica viuzza della città. Ora comanda il superfluo.