Da solo con Vasco. Ancora una volta. Come sempre. Mi è sembrato molto deluso, nervoso, arrabbiato, anche triste e rancoroso. Nonostante Londra, perla tra le perle della sua strabiliante collezione, nonostante la gioia sudata per aver fatto centro un'altra volta. Alla fine s'è quasi spogliato, rideva e strillava come solo lui sa fare. Qualcosa, però, non andava. Questa è la mia impressione. Ce l'aveva col cielo con la ferocia non dei suoi anni più feroci, ma di quelli più deboli. La ferocia monca di chi ha una certa età e un cuore che non ha mai cambiato rotta, ma che è senza dubbio invecchiato. E più invecchia e più si arrabbia per ciò che non è stato. Gli applausi sono lì e le luci sono ancora accese, fortissime. Lui è ancora lì, meno agile. Eppure all'improvviso sputa un fuoco rabbioso con cui chiarire che dentro di lui le cose non sono diverse. Dentro di lui l'incendio è forse addirittura più alto e più esteso di qualche anno fa, quando doveva esserlo almeno per anagrafe. Chiarisce, perché anche uno come lui ha bisogno di chiarire, che le fiamme se ne fregano delle cartelle cliniche e della buona e della cattiva salute, dei medici e delle verità ufficiali, delle persone che ti hanno lasciato al buio e continuano a raccontare le cose come vogliono loro, senza dubbi. Alle fiamme non importa neppure delle verità scritte nelle sue canzoni più dirette. Alla fine resta un uomo solo. Circondato da vecchi amici insieme ai quali ha lottato e continua a lottare, certo. Ma alla fine resti da solo. Al buio. Te la prendi con te stesso e col mondo. Te la prendi con l'amore che non doveva finire così. Insulti il destino, poi ti riprendi e dici che è colpa della sfortuna o di Alfredo, oppure del whisky. Alla fine non cambia un cazzo. L'incendio però è sempre più alto e più esteso. Non c'è modo di uscire vivi da questa malattia. L'unica soluzione, pare, è continuare ad ammalarsi. Lui lo ha fatto. Io pure. Anche se le vene non reggono più.