martedì 15 marzo 2011

Ksaverija

Ksaverija prese il volo una sera di novembre, quando il silenzio lungo la gelide strade d'inverno viene di solito straziato dal rombo ruvido e vigliacco di una macchina in corsa. Ksaverija prese il volo perché nessuno comprese mai la profondità delle sue ferite. Prese il volo, Ksaverija, perché, nonostante non avesse più uno stomaco, non ne accettò di nuovi. Bianca ma non sbiadita, Ksaverija si era chiusa in casa per godersi un poco di mare calmo, dopo troppi anni di vessazioni storiche e minacce firmate tra le avverse mura domestiche. I tuoi nervi tesi, dolce Babute, in quella foto di mezza età. Un coltello puntato alla schiena che ti costringeva a ripassare le regole delle guerre più infami ogni santo giorno e a sorridere a denti stretti, fino a perdere il sorriso. Piccola Babute di malinconia, come una vecchia canzone che oggi fa un po' ridere i corrotti e gli idioti, chi non sa e mai saprà un bel niente, nonostante i titoloni appesi al muro e gli elogi che certi stolti genitori non smetteranno mai di distribuire ai propri figli, come se li conoscessero solo e soltanto attraverso la carriera, mai passando per le viscere. Eri tu, con la bottiglia di plastica, quella con la birra a buon mercato sul tavolino, nella piccola sala da pranzo; con i pantaloni semplici, con il profumo di una pelle ancora orgogliosa e delicata. Con la paura di trovare quei soldati anche dentro i cassetti, con la voglia di affacciarti alla finestra per salutarci e sperare di rivederci anche domani. Tu con le guance rosse per lo scherzo di cattivo gusto di una medicina e di una dottoressa che ironizza al telefono, non è niente, Ksaverija, non c'è pericolo. Babute diventa sempre più rossa, col passare dei giorni la situazione precipita. La ritrovo candida come un lenzuolo in un posto che dovrebbe essere asettico, ma che invece pullula di germi e di maniere forti sugli anziani mentre fuori e dentro impazza il libero mercato e l'umanità frigge, felicissima di friggere. Babute non ne ha più, il filo di voce già compromesso dall'infezione evapora del tutto; resta un piccolissimo soffio di fiato, noi umanoidi in piedi accanto a lei in fondo non meritiamo una simile poesia. Si sta spegnendo un fiore unico, non posso far altro che assistere all'abbandono del corpo da parte di un'anima e di una coscienza realmente esistite. Siamo circondati da un insopportabile grigiore ospedaliero. Abbiamo provato a colorare gli ultimi tuoi momenti, abbiamo pure creduto, sul serio, alla salute di ritorno. Capire. Se potessimo davvero capire, tutto sarebbe diverso. Ti avrei portata in salvo, saresti tornata a casa con noi dopo le cure. T'avrei baciata sulla fronte per darti la buonanotte. Non per dirti addio.

(continua)